Lorenzo il Magnifico - Opera Omnia >>  Corinto




 

il magnifico lorenzo de medici testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere letterarie e in versi, operaomnia #



    La luna in mezzo alle minori stelle
chiara fulgea nel ciel queto e sereno,
quasi abscondendo lo splendor di quelle,
    e 'l sonno aveva ogni animal terreno
dalle fatiche lor dïurne sciolti:
e 'l mondo è d'ombre e di silenzio pieno.
    Sol, Corinto pastor ne' boschi folti
cantava per amor di Galatea,
tra' faggi, e non vi é altri che lo ascolti:
    né alle luci lacrimose avea
data quïete alcuna, anzi soletto
con questi versi il suo amor piangea:
    -- O Galatea, perché tanto in dispetto
hai Corinto pastor, che te ama tanto?
Perché vuoi tu che muoia il poveretto?
    Qual' siano i mia sospiri e il tristo pianto
odonlo i boschi, e tu, Notte, lo senti,
poich'io son sotto il tuo stellato ammanto.
    Sanza sospetto i ben pasciuti armenti
lieti si stanno nella lor quïete,
e ruminando forse erbe pallenti.
    Le pecorelle ancor, dentro alla rete,
guardate dal can vigile, si stanno
all'aura fresca dormïenti e liete.
    Io piango non udito il duro affanno.
I pianti i prieghi e le parole all'ugge:
ché, se udite non son, che frutto fanno?
    Deh!, come innanzi alli occhi nostri fugge,
non fugge giù davanti dal pensiero?
Ché poi, più che presente, il cor mi strugge!
    Deh, non aver il cor tanto severo!
Tre lustri già della tua casta vita
servito hai di Dïana il duro impero:
    non basta questo? Or dammi qualche aïta,
ninfa, che se' sanza pietate alcuna!
Ma, lasso a me!, non è la voce udita.
    Se almen di mille udita ne fussi una!
Io so che i versi posson, se li sente,
di cielo in terra far venir la luna;
    i versi feron già l'itaca gente
in fère trasformar; ne' verdi prati
rompono i versi il frigido serpente.
    Adunque e rozzi versi e poco ornati
daremo al vento; et or ho visto come
saranno a·llei i mia pianti portati.
    L'aura move delli arbor' l'alte chiome,
che rendon, mosse, un mormorio süave,
che empie l'aere et i boschi del suo nome;
    se porta questo a me, non li fia grave
portar mio pianto a questa dura femina
per li alti monti e per le valli cave,
    ove abita Ecco, che i mia pianti gemina:
o questo o il vento a·llei lo portin seco.
Io so che 'l pianto in pietra non si semina:
    forse ode ella vicina in qualche speco.
Non so se sei qui presso; so ben ch'io,
fuggi dove tu vuoi, sempre son teco.
    Se il tuo crudo voler fussi più pio,
s'io ti vedessi qui, s'io ti toccassi
le bianche mani e 'l tuo bel viso, o Dio!
    Se meco sopra l'erba ti posassi,
della scorza faria d'un lento salcio
una zampogna, e vorrei tu cantassi;
    l'errante chiome poi strette in un tralcio,
vedrei per l'erba il candido piè muovere,
ballando, e dare al vento qualche calcio:
    poi, stracca, giaceresti sotto un rovere.
Io pel prato côrrei diversi fiori
e sopra il viso tuo li farei piovere,
    di color' mille e mille varii odori;
tu ridendo faresti, dove fôro
i primi còlti, uscir delli altri fuori.
    Quante ghirlande sopra i bei crin' d'oro
farei, miste di fronde e di fioretti!
Tu vinceresti ogni bellezza loro.
    Il mormorio di chiari ruscelletti
risponderebbe alla nostra dolcezza
e 'l canto d'amorosi augelletti.
    Fugga, ninfa, da te tanta durezza;
questo acerbo pensier del tuo cor caccia:
deh, non far micidial la tua bellezza!
    Se delle fiere vuoi seguir la traccia,
non c'è pastor o più robusto o dotto
a seguir fiere fugitive in caccia.
    Tu nascosta starai sanza far motto
con l'arco in mano, io con lo spiedo acuto
il fèr cinghial aspetterò di sotto.
    Ma, lasso, che dolore ho già avuto,
quando fuggi dalli occhi col piè scalzo,
e con quanti sospiri ho già temuto
    che spine o fère venenose o il balzo
non offenda i tuo piè! Quanto n'ho sdegno!
Per te fuggo i piè invano, e per te gli alzo:
    come chi drizza stral veloce al segno,
poiché tratto ha, torcendo il capo, crede
drizzarlo, e gli è già fuor del curvo legno.
    Ma tu se' sì leggiera, che io ho fede
che la tua levità porria per l'acque
liquide correr sanza intigner piede.
    Ma che päura dentro al cor mi nacque,
che non facessi come già Narciso,
a cui la sua bellezza troppo piacque,
    quando al bel fonte ti lavasti il viso,
poi, queta la tempesta da te mossa,
miravi nel tranquillo specchio fiso!
    Ah mente degli amanti stolta e grossa!
Partita tu, là corsi, non credendo
la bella effigie fussi indi remossa:
    guardai nell'acqua, e, te non vi vedendo,
vidi me stesso; e parvemi esser tale,
da non esser ripreso, te chiedendo.
    S'io non son bianco, è il sol, né mi sta male,
sendo io pastor così forte e robusto;
ma dimmi: uno uom che non sia brun, che vale?
    Se pien' di peli ho io le spalle e il busto,
questo non ti dovrebbe dispiacere,
se hai, quanto bellezza, ingegno o gusto.
    Tu non sai forse quanto è il mio potere:
s'io piglio per le corna un toro bravo,
a suo dispetto in terra il fo cadere.
    L'altrieri in uno speco obscuro e cavo
fui per cavar una coppia d'orsatti,
ove appiccando con le man' me andavo;
    giunsi alla tana, e, poi ch'io gli ebbi tratti,
sentimmi l'orsa rabida e superba
e cominciommi a far d'i cattivi atti;
    io colsi un duro ramo, e sopra l'erba
la lasciai morta, e porta'ne la preda:
la qual per te, se tu vorrai, si serba.
    Alle braccia convien che ogn'uom mi ceda:
vinsi l'altrier, per la festa di Pana,
una vacca che avea drieto la reda.
    Con l'arco in man certar voglio con Diana:
per premio ebbi un monton di quattro corna
col vello bianco insino a terra piana:
    tuo fia, benché Neïfil se ne scorna,
a cui son per tuo amor pur troppo ingrato:
lei per piacermi intorno ognor s'adorna.
    S'io son ricco, tu il sai, ché in ogni lato
sonar senti le valle del mugito
de' buoi, e delle pecore il balato.
    Latte ho fresco ad ognora, e nel fiorito
prato fragole, còlte belle e rosse,
pallide ove è il tuo viso colorito;
    frutte ad ogni stagion mature e grosse;
nutrisco d'ape molte e molte milia,
né crederresti al mondo più ne fosse;
    che fanno un mèl sì dolce, che assimilia
l'ambrosia che alcun dice pascer Giove,
non sol vince le canne di Sicilia.
    O ninfa, se il mio canto non ti muove,
muovati almen quello d'augei diversi
che canton con piatose voce e nuove:
    non odi tu d'amor meco dolersi,
misera, Philomena, che si lagna
d'altrui, come io di te, ne' dolci versi?
    Questa sol sanza sonno mi accompagna.
Ma io ti credo muovere a pietate,
tu ridi se il mio pianto il terren bagna.
    Dove è somma bellezza e crudeltate
è viva morte; pur mi riconforto
non dee sempre durar la tua biltate.
    L'altra mattina in un mio piccolo orto
andavo, e il sol surgente co' sua rai
apparia già, non ch'io il vedessi scorto.
    Sonvi piantati dentro alcun' rosai,
ai qual' rivolsi le mia vaghe ciglie,
per quel che visto non avevo mai.
    Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s'apra e scompiglie:
    altra più giovenetta si dislega
a pena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all'aire niega;
    altra, cadendo, a piè il terreno infiora.
Così le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men di un'ora.
    Quando languente e pallide vidi ire
le foglie a terra, allor mi venne a mente
che vana cosa è il giovenil fiorire.
    Nostro solo è quel poco ch'è presente,
né il passato o il futuro è nostro tempo:
un non è più, e l'altro è ancor nïente.
    Cogli la rosa, o ninfa, or ch'è 'l bel tempo! --


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Lorenzo De' Medici - Opere", a cura di Tiziano Zanato, NUOVA UNIVERSALE EINAUDI, Giulio Einaudi editore, Torino, 1992







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