Lorenzo il Magnifico - Opera Omnia >>  Canzone carnascialesche Parafrasi    




 

il magnifico lorenzo de medici testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere letterarie e in versi, operaomnia #


I

CANZONA DE' SETTE PIANETI


    Sette pianeti siam, che l'alte sede
lasciam per far del cielo in terra fede.
    Da noi son tutti e beni e tutti e mali,
quel che vi affligge, miseri, e vi giova;
ciò che alli uomini aviene, alli animali
e piante e pietre, convien da noi muova;
sforziam chi tenta contr'a noi far pruova;
conduciam dolcemente chi ci crede.
    Maninconici, miseri e sottili;
ricchi, onorati, buon' prelati e gravi;
sùbiti, impazïenti, fèr', virili;
pomposi re, musici illustri, e savi;
astuti parlator', bugiardi e pravi;
ogni vil opra alfin da noi procede.
    Venere grazïosa, chiara e bella
muove nel core amore e gentilezza:
chi tocca il foco della dolce stella,
convien sempre arda della altrui bellezza;
fère, augelli e pesci hanno dolcezza;
per questa il mondo rinnovar si vede.
    Orsù! seguiam questa stella benigna,
o donne vaghe, o giovinetti adorni:
tutti vi chiama la bella Ciprigna
a spender lietamente e vostri giorni,
senza aspettar che 'l dolce tempo torni,
che come fugge un tratto, mai non riede.
    El dolce tempo ancor tutti c'invita
lasciare e pensier' tristi e' van' dolori.
Mentre che dura questa breve vita,
ciascun s'allegri, ciascun s'innamori;
contentisi chi può: ricchezze, onori,
per chi non si contenta, invan si chiede.



II

CANZONA DE' FORNAI


    O donne, noi siam giovani fornai,
dell'arte nostra buon' maestri assai.
    Noi facciam berlingozzi e zuccherini,
cociamo ancor certi calicioncini:
abbiam de' grandi, e paionvi piccini,
di fuor pastosi e drento dolci assai.
    Facciamo ancor bracciatelli e ignocchi,
non grati all'occhio, anzi pien' di bernocchi:
paion duri di fuor, quando gli tocchi,
ma drento poi rïescon meglio assai.
    Se ci è alcuna a chi la fava piaccia,
la meglio infranta abbiam che ci si faccia,
con un pestel che insino a' gusci schiaccia:
ma a menar forte ell'esce de' mortai.
    Noi sappiamo ancor fare el pan buffetto,
più bianco che non è il vostro ciuffetto;
direnvi il modo, ché n'abbiam diletto:
pensar, dir, far non vorremo altro mai.
    Convien farina aver di gran calvello,
poi menar tanto il staccio o burattello,
che n'esca il fiore; e l'acqua calda e quello
mescola insieme, e tutto intriderai.
    Or qui bisogna aver poi buona schiena:
la pasta è fine più, che più si mena;
se sudi qualche goccia per la pena,
rimena pure insin che fatto l'hai.
    Fatto il pan, si vuol porre a lievitare:
in qualche luogo caldo vorria stare,
sopra un lettuccio puossi assai ben fare;
che in ordine sia bene aspetterai.
    Intanto il forno è caldo, e tu lo spazzi:
lo spazzatoio in qua e in là diguazzi,
se vi resta di cener certi sprazzi:
non l'ha mai netto ben chi cuoce assai.
    Sente il pan drento quel calduccio, e cresce;
rigonfia, e l'acqua a poco a poco n'esce;
entravi grave, e soffice rïesce;
d'un pane allor quasi un boccon farai.
    Per cuocer uno arrosto o un pastello,
allato al forno grande è un fornello,
e tutt'a dua han quasi uno sportello:
ma non lo sanno usar tutti e fornai.
    O belle donne, questa è l'arte nostra;
se voi volessi per la bocca vostra
qualche cosetta, questa sia la mostra:
al paragon noi starem sempre mai.



III

CANZONA DELLO ZIBETTO


    Donne, quest'è un animal perfetto
a molte cose, e chiamasi zibetto,
    E' vien da lungi, d'un päese strano,
sta ove è gemitìo o ver pantano,
in luoghi bassi, e chi 'l tocca con mano,
rade volte ne suole uscir poi netto.
    Carne sanza osso sol gli paion buone,
ma vuolne spesso e, se può, gran boccone;
poi dua dita di sotto al codrïone,
come udirete, si cava il zibetto.
    Hassi una tenta, ch'è un terzo lunga,
spuntata acciò che drento non lo punga;
cacciasi drento, e convien tutta s'unga:
o donne! e' vi parria dolce diletto.
    Così si cava quel dolce liquore;
et ècci a chi non piace quello odore:
egl'è pur buon, ma il troppo fa fetore
di qualche tanfo, a chi lo tien mal netto.
    Bisogna al metter drento ben guardare
e'l luogo ov'è il zibetto non scambiare,
ché si potria d'altra cosa imbrattare
la tenta, e fassi male al poveretto.
    Chi non ha tenta, piglia altro partito:
truova stran' modi, o almen fa col dito,
e poi lo danno a fiutare al marito,
se non ha tenta o vien da·llui il difetto.
    È certe volte a trar pericoloso,
perché egli ha il tempo suo, e vuol riposo
tre giorni o quattro; pure, un voglioloso
non guarda a quello e tra'ne un stran brodetto.
    La virtù del zibetto, donne, è questa:
mettivi il naso, e' scarica la testa;
della donna del corpo ogni mal resta:
e' non c'è meglio a chi ha quel difetto.
    Chi avessi durezza nelle rene,
la punta della tenta ugnerà bene:
metti ov'è il male, e subito ne viene
fuor la caldezza, ed ha'ne gran diletto.
    Di fare ingravidare ha gran virtùe;
molte altre ancor, ma non ne direm piùe;
forse abbiam detto troppo! Donne, orsùe!,
provate s'egli è ver quel che abbiam detto.
    Se ne volete, noi ne vogliam vendere;
del più vivo ch'avete convien spendere;
non siate dure, e' vi bisogna arrendere,
e menare a volerne un bossoletto.



IV

CANZONA DELLI INNESTATORI


    Donne, noi siam maestri d'innestare;
in ogni modo lo sappiam ben fare.
    Se volete imparar questa nostra arte,
noi ve la mostreremo a parte a parte;
e' non bisogna molti studii o carte:
l'è cosa natural ognun sa fare.
    L'arbor che innesti fa' sia giovinetto,
tenero, lungo, sanza nodi, schietto,
dilicato di buccia, bello e netto,
quando e' comincia a muovere e gittare.
    Segalo poi e fa' pel mezzo un fesso;
la marza in ordin sia, un terzo o presso:
stretto quanto tu puoi ve l'arai messo,
purché la buccia non facci scoppiare.
    Così quanto si può dentro si pigne,
con un buon salcio poi si lega e cigne,
e l'una buccia con l'altra si strigne,
così gli umor' si posson mescolare.
    Per quando e' piove, molto ben si fascia;
così fasciato, qualche dì si lascia;
chi lo sfasciassi allora, e' non c'è grascia
che non facessi la marza sdegnare.
    Sanza fender ancor fassi e s'appicca:
con man la buccia gentilmente spicca,
sanza intaccarla, e poi la marza ficca
tra buccia e buccia, strigni e lascia fare.
    Chi vuol buon olio, ancor li ulivi innesti,
e mele e fichi, e fansi grossi e presti;
veggo che 'l modo intender voi vorresti:
ma voi il sapete, e fateci parlare!
    Di questo modo si fa grande stima:
togli un cotal tondo, forato in cima,
un ferro da stampare, e spicca in prima
la buccia intorno dove l'occhio appare.
    Spicco quell'occhio e presto lo conduco
ove io ho preparato prima un buco,
che è men d'un grosso; poi la buccia sdruco,
mettovel drento e suol rammarginare.
    Convien con diligenzia vi si metta:
guasta ogni cosa spesso chi fa in fretta,
rïesce meglio chi 'l suo tempo aspetta:
quando gli è in succhio e dolco è miglior fare.
    Noi crediamo oramai che voi sappiate
il nestare a bucciolo, e quel del frate,
che ne fa tutto l'anno, verno e state.
Puossi ogni pianta, e pèsche ancor, nestare.
    L'arbor ch'è prima salvatico e strano,
nestandolo si fa di mano in mano
più bello e più gentil, né viene invano,
ma vedete be' frutti che suol fare.
    Donne, noi v'invitiamo a nestar tutte,
se non piove e se van le cose asciutte;
e se volete pèsche o altre frutte,
noi siamo in punto e ve ne possiam dare.
    S'alcuna fussi di voi male agevole,
che·ll'innestar gli paressi spiacevole,
gl'insegneremo un modo sì piacevole,
ch'altro non vorre' fare che innestare.



V

CANZONA DE' VISI ADDRIETO


    Le cose al contrario vanno,
tutte, e pensa a ciò che vuoi;
come il gambero andiam noi,
per far come l'altre fanno.
    E' bisogna oggi portare
gli occhi drieto e non davanti;
né così puossi un guardare:
traditor' siam tutti quanti!
Tristo a chi crede a' sembianti,
ché riceve spesso inganno.
    Però non facciamo scusa
di questo nostro ire addrieto:
e' s'intende oggi ognun l'usa,
questo è il modo consüeto;
chi lo fa, dunque, stia cheto,
noi sentiam che tutti il fanno.
    Crediam questo me' rïesca,
poiché ognun dà di drieto oggi:
se riceve qualche pèsca,
vede e pensa ove s'appoggi,
con man tocca pria che alloggi,
poi non ha vergogna o danno.
    Chi non porta drieto gli occhi,
per voltarsi indrieto incorda;
d'i gran colpi convien tocchi,
per vergogna fa alla sorda;
drieto al fatto si ricorda,
quando siede, il mal che fanno.
    Non pigliate maraviglia
se le donne ancor fan questo:
ciascuno oggi s'assottiglia:
ogni mese è il lor bisesto!
L'un soccorre all'altro presto,
e così tutte vi vanno.



VI

CANZONA DE' CIALDONI


    Giovani siam, maestri molto buoni,
donne, come udirete, a far cialdoni.
    In questo carnascial siamo svïati
dalla bottega, anzi fummo cacciati:
non eran prima fatti che mangiati
da noi, che ghiotti siam, tutti e cialdoni.
    Cerchiamo avïamento, donne, tale,
che ci passiamo in questo carnasciale,
e sanza donne inver si può far male;
e insegnerenvi come e' si fan buoni.
    Metti nel vaso acqua, e farina drento
quanto ve n'entra, e mena a compimento;
quando hai menato, e' vien come uno unguento,
un'acqua quasi par di maccheroni.
    Chi non vuole a·menar presto esser stanco,
meni col ritto e non col braccio manco;
poi vi si getta quel ch'è dolce e bianco
zucchero, e fa' il menar non abbandoni.
    Conviene, in quel menar, cura bene aggia,
per menar forte, che di fuor non caggia;
fatto lo intriso, poi, col dito assaggia:
se ti par buon, le forme a fuoco poni.
    Scaldale bene, e se sia forma nuova,
el fare adagio ed ugner molto giova;
e mettivene poco prima, e pruova
come riceve, e se gli getta buoni.
    Ma se la forma fia usata e vecchia,
quanto tu vuoi, per metterne, apparecchia,
perché ne può ricevere una secchia,
e da Bologna i romaiol' son buoni.
    Quando lo intriso nelle forme metti
e senti frigger, tieni e ferri stretti,
mena le forme e stringi acciò s'assetti,
volgi sozzopra: e' fien ben cotti e buoni.
    El troppo intriso fuora spesso avanza,
esce pe' fessi: ma questo è usanza;
quando ti par che sia fatto a bastanza,
apri le forme e cavane i cialdoni.
    Nello star troppo scema, non già cresce;
se son ben unte, da sé quasi n'esce,
e 'l ripiegarlo allor facil rïesce,
caldo, e in un panno bianco lo riponi.
    Piglia o la grattapugia o un pannuccio
ruvido, e netta bene ogni cantuccio;
la forma è quasi una bocca di luccio:
tien ne' fessi lo intriso che vi poni.
    Esser vuole il cialdone un terzo o piùe
grosso, a ragione aver le parte sue;
e al farli esser vogliono almen due:
l'un tenga, l'altro metta, e fansi buoni.
    Se son ben cotti, coloriti e rossi,
son belli, e quanti un vuol mangiarne puossi:
perché, se paion ben vegnenti e grossi,
strignendo e' son pur piccioli bocconi.
    Donne, tenete voi e noi mettiàno;
se noi mettessin troppo forte o piano,
pigliate voi il romaiolo in mano,
mettete voi, purché facciam de' buoni.



VII

CANZONA DE' PROFUMI


    Siam galanti di Valenza,
qui per passo capitati,
d'amor già presi e legati
delle donne da Fiorenza.
    Son molte gentili e belle
donne nella terra nostra:
voi vincete d'assai quelle,
come il viso di fuor mostra.
Questa gran bellezza vostra
con amore accompagnate;
se non siate innamorate,
e' saria meglio esser senza.
    Secondo e nostri costumi,
useremo ancor con voi;
ugelletti, oli e profumi,
donne belle, abbiam con noi:
hanno odor söave, e poi
molto aiutan la natura.
Se c'è donna alcuna dura
contro ' Amor, la farà senza.
    Quanto è una buona spanna
ugelletti lunghi abbiàno:
se dicessi altri v'inganna,
noi ve gli porremo in mano;
ritti al luogo gli mettiàno.
Nella punta acceso è 'l foco,
onde sparge a poco a poco
dolce odor, che ha gran potenza.
    Or dell'olio vogliam dire:
ha odore e virtù tanta,
che fa altri risentire
dal capo insino alla pianta.
L'olio è una cosa santa:
se stillato in buona boccia,
esce fuori a goccia a goccia;
se più pena, ha più potenza.
    L'olio sana ogni dolore
e risolve ogni durezza;
tira a·ssé tutto l'umore,
trae del membro la caldezza;
penetrando dà dolcezza,
quanto più forte stropicci;
se hai triemiti o capricci,
usa l'olio e sarai senza.
    Noi abbiamo un buon sapone,
che fa saponata assai:
frega un pezzo, ove si pone;
se più meni, più n'arai.
Èv'egli accaduto mai,
donne, aver l'anella strette?
Col sapon si cava e mette;
cuoce un poco: pazïenza!
    Donne, ciò che abbiamo è vostro.
Se d'amor voi siate accese,
metterem l'olio di nostro,
ungeremo a nostre spese;
abbiam olio del päese,
gelsi, aranci e bengiuì;
se vi piace, proviam qui:
fate questa esperïenza.



VIII

CANZONA DELLE FORESE


    Lasse!, in questo carnasciale
noi abbiam, donne, smarriti
tutt'a sei nostri mariti,
e sanz'essi stiam pur male.
    Di Narcetri noi siam tutte,
nostra arte è l'esser forese;
noi cogliemo certe frutte
belle come dà il paese;
se c'è alcuna sì cortese,
c'insegni e mariti nostri:
questi frutti saran vostri,
che son dolci e non fan male.
    Cetrïuoli abbiamo, e grossi,
di fuor pur ronchiosi e strani;
paion quasi pien' di cossi,
poi sono apritivi e sani;
e' si piglion con dua mani:
dal fior lieva un po' di buccia,
apri ben la bocca e succia;
chi s'avezza, e' non fa male.
    Mellon' c'è con gli altri insieme
quanto è una zucca grossa;
noi serbiam questi per seme,
perché assai nascer ne possa.
Fassi lor la lingua rossa,
l'alie e ' piè: e' pare un drago!
A vederlo è fiero e vago:
fa paura e non fa male.
    Noi abbiam con noi baccelli
lunghi e teneri, da ghiotti,
et abbiamo ancor di quelli
duri e grossi, e son buon' cotti
e da far de' ser magotti:
se la coda in man tu tieni,
sù e giù quel guscio meni;
e' minaccia e non fa male.
    Queste frutte oggi è usanza
che si mangion drieto a cena;
a noi pare una ignoranza:
a smaltirle è poi la pena!
Quando la natura è piena
de' bastar: pur, fate voi
dell'usarle innanzi o poi;
ma dinanzi e' non fan male.
    Queste frutte, come sono,
se ' mariti c'insegnate,
noi ve ne faremo un dono;
noi siam pur di verde etate:
se lor fien persone ingrate,
troverrem qualche altro modo,
che 'l poder non resti sodo:
noi vogliam far carnasciale!



IX

CANZONA DELLE DONNE E DELLE CICALE


    Donne, siam, come vedete,
giovinette vaghe e liete.
Noi ci andiam dando diletto,
come s'usa el carnasciale:
l'altrui bene hanno in dispetto
gli invidiosi e·lle cicale;
poi si sfogan col dir male
le cicale che vedete.
Noi siam pure sventurate!
Le cicale in preda ci hanno,
che non cantan sol la state,
anzi duran tutto l'anno;
a color che peggio fanno,
sempre dir peggio udirete.

Le cicale:

    Quel ch'è la natura nostra,
donne belle, facciam noi;
ma spesso è la colpa vostra,
quando lo ridite voi:
vuolsi far le cose, e poi
saperle tener segrete.
Chi fa presto, può fuggire
el pericol del parlare.
Che vi giova un far morire,
sol per farlo assai stentare?
Se v'offende el cicalare,
fate, mentre che potete.

Le donne:

    Or che val nostra bellezza,
se si perde per parole?
Viva amore e gentilezza,
muoia invidia e a chi el ben duole!
Dica pur chi mal dir vuole:
noi faremo e voi direte.



X

CANZONA DI BACCO


    Quanto è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c'è certezza.
    Questo è Bacco e Arïanna,
belli e l'un dell'altro ardenti:
perché el tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe e altre genti
sono allegri tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c'è certezza.
    Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati,
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c'è certezza.
    Queste ninfe hanno anco caro
da·lloro essere ingannate:
non può fare ' Amor riparo,
se non gente rozze e ingrate;
ora insieme mescolate
suonon, canton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c'è certezza.
    Questa soma, che vien drieto
sopra l'asino, è Sileno:
così vecchio è ebro e lieto,
già di carne e d'anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c'è certezza.
    Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca, oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s'altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c'è certezza.
    Ciascun apra ben gli orecchi:
di doman nessun si paschi,
oggi siàn, giovani e vecchi,
lieti ognun, femine e maschi.
Ogni tristo pensier caschi,
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c'è certezza.
    Donne e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core:
non fatica, non dolore!
Ciò che ha esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c'è certezza.



XI

CANZONA DE' CONFORTINI


    Berricuocoli, donne, e confortini!
Se ne volete, e nostri son de' fini.
    Non bisogna insegnar come si fanno,
ché è tempo perso, e 'l tempo è pur gran danno;
e chi lo perde, come molte fanno,
convien che faccia poi de' pentolini.
    Quando egli è il tempo vostro, fate fatti
e non pensate a impedimenti o imbratti;
chi non ha il modo, dal vicin l'accatti:
e' preston l'uno all'altro i buon' vicini.
    El far quest'arte è cosa da garzoni:
basta!, che i nostri confortin' son buoni!
Non aspettate che altri ve li doni:
convien giucare o spender bei quattrini.
    Noi abbiam carte, e fassi alla "bassetta":
e' convien che l'una alzi e l'altro metta,
poi di qua e di là spesso si getta
le carte: e tira a te, se tu indovini.
    O "tre" o "quattro", o "sotto" o "sopra" chiedi,
e ti struggi dal capo insino a' piedi,
insin che viene; e quando vien, poi, vedi
stran' visi e mugolar come mucini.
    Chi si truova al di sotto, allor, si cruccia,
scontorcesi e fa viso di bertuccia
(ché 'l suo ne va), straluna gli occhi e succia:
e' piangon anche i miseri meschini.
    Chi vince, per dolcezza si gavazza,
dileggia e ghigna e tutto si diguazza;
credere alla Fortuna è cosa pazza:
aspetti pur poi si pieghi e chini!
    Questa "bassetta" è spacciativo giuoco
e ritto ritto fassi in ogni loco;
e solo ha questo mal: che dura poco;
ma spesso bea chi ha bicchier' piccini!
    El "flusso" c'è, ch'è giuoco maladetto,
ma chi volessi pure uscirne netto,
metta pian piano e inviti poco e stretto:
ma lo fanno oggi infino a' contadini!
    Chi mette tutto el suo in uno invito,
se vien "flusso", si truova a mal partito;
se lo vedessi, e' pare un uom ferito:
che maladetto sia Sforzo Bettini!
    "Trai" è mal giuoco, e 'l "pizzico" si suole
usare, e la "diritta" a nessun duole:
chi ha le carte in man, fa quel che vuole,
se è ben fornito di grossi e fiorini.
    Se volete giucar come abbiam mostro,
noi siam contenti metter tutto il nostro
in una posta, or qui per mezzo il vostro:
sino alle casse, non che e confortini.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Lorenzo De' Medici - Opere", a cura di Tiziano Zanato, NUOVA UNIVERSALE EINAUDI, Giulio Einaudi editore, Torino, 1992







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